Patrizia Bonardi
Patrizia Bonardi
Patrizia Bonardi
Stefano Taccone per Mare bandiera di P.Bonardi 2020
Il mare: cimentarsi nel parlare del mare per uno scrivente può produrre il medesimo effetto di colui che si pone davanti ad esso per contemplarlo. Un senso di sublime kantiano, in quanto terrore per l’impossibilità da parte dell’uomo di relazionarsi adeguatamente alla sua infinita grandezza e coscienza di comprendere comunque questo enorme dislivello. Dall’Odissea omerica a Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway, dalla storia – biblica e non solo - del Diluvio a Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne – solo per citare casi stranoti – il mio dubbio è che l’area che ricoprirebbero tutte le pagine relative alla letteratura del mare sarebbe maggiore di quella del mare stesso, che – si badi – occupa circa due terzi della superficie terrestre.
Sul filo dell’ambivalenza del sentimento potremmo continuare a lungo. Il mare è infatti fin da tempi antichissimi una benedizione per la vita umana: il mare offre sostentamento attraverso la pesca; chi vive vicino al mare respira iodio e ne trae grande vantaggio per la salute; chi ha uno sbocco sul mare sviluppa l’attitudine al viaggio, quindi alla curiosità, all’apertura verso le culture altre, e ciò ci permette di risalire almeno ai fenici ed ai greci antichi. Tuttavia il mare è anche una grande minaccia, perché l’uomo resta un animale di terra – benché tutti gli esseri attualmente viventi, pare, discendano da esseri un tempo acquatici –, o al massimo di acqua dolce, e dunque abbandonare la terra ferma per un tempo troppo lungo lo espone a tutti gli enormi pericoli che il suo “nemico-amico” tipicamente gli procura. Il mito delle Colonne d'Ercole che ancora appena mezzo millennio fa mantiene tutto il suo portato di tabù come ha ben occasione di sperimentare un Cristoforo Colombo – e non a torto, visto che il capitano genovese sbaglia clamorosamente i calcoli e, con tutto il suo equipaggio, viene salvato soltanto dall’imponderabile presenza della pseudo-India americana – è forse quanto di più emblematico circa questo versante sinistro del mare – e non a caso Dante le sceglie come umiliazione, annichilimento della curiosità più spinta che sconfina nell’autodistruzione, cambiando il finale al racconto omerico di Ulisse.
Negli ultimi tempi probabilmente sono però due in particolare gli eventi disastrosi che il mare è in grado di evocare. Uno è legato al surriscaldamento globale, con annesso, minacciosissimo, scioglimento dei giacchiai e innalzamento delle maree – scenario peraltro non alieno da una morale che ricorda all’uomo il prezzo dell’infrazione di certi limiti, come per l’Ulisse dantesco. Esso è ampiamente aleggiante nella mostra collettiva La società del rischio, apertasi nell’autunno dello scorso anno sempre al BACS di Leffe, di cui Patrizia Bonardi è curatrice, prima ancora che una degli artisti in mostra; ed in questa ultima veste, con un’opera come Onde anomale (2019), non si lascia sfuggire l’occasione di affrontare tale eufemisticamente scottante questione a partire proprio da una scultura-mare. L’altro, forse ancor più direttamente connesso, almeno sul piano dell’immaginario, al mare, è il dramma dell’immigrazione nel Mediterraneo: donne e uomini – bambine e bambini! – esasperatamente in fuga da territori invivibili che spesso e volentieri trovano un muro di disumanità. E qualche volta anche muri letterali: si veda quello che proprio in queste ore sta costruendo la Spagna con il suo tanto decantato governo non solo genericamente di sinistra – PSOE –, ma con una forte componente di “sinistra radicale” – Podemos.
A questa seconda tragedia assistiamo reiteratamente da una decina d’anni, peraltro, con picchi estivi e non senza che essa trovi una triste controparte nell’aumento dei sentimenti xenofobi nella popolazione italiana ed europea in generale. Ed è appunto da una decina d’anni a questa parte che Patrizia non cessa di allarmare su di essa, tramite sculture-mare - come quella della mostra dell’anno scorso - quali Blue Wound (2011) – anche se in quest’opera il riferimento all’attualità è un attimino più rarefatto -, Mare zattera (2012), Mare prigione (2015) o anche opere di altro genere, Fiori migranti (2015) ad esempio. A questa seconda tragedia ella sembra riferirsi nel momento in cui realizza i suoi ondeggianti plasticismi multicolori. La tecnica della cera ad encausto le permette di raggiungere risultati che nella loro forza evocativa suscitano anche numerosi enigmi ed inciampi noetico-percettivi. Si tratta ad esempio di una scultura astratta o mimetica? Se ad un primo sguardo saremmo portati ad optare per la prima ipotesi, aiutati anche dai colori franti o – in altri frangenti - dal monocromo bianco, un titolo come Mare bandiera ci suggerisce se non qualcosa di opposto quanto meno qualcosa di diverso. Senz’altro insomma l’arricciarsi relativamente regolare del materiale richiama l’attorcigliarsi delle onde e – perché no? – anche i moti vari di una bandiera turbata dal vento, senonché il mimetismo si ferma appunto qui, non giungendo ad interessare i colori che a questo punto, in quanto pluralità di tinte richiama le bandiere dei vari popoli e nel contempo richiama le molteplici identità di chi solca il mare – e magari vi trova anche la morte. La policromia diviene insomma metafora di un mare come zona franca, come cerniera tra le terre che è di tutti – e non di nessuno.
Il rapprendersi di un materiale primariamente liquido – come liquida è l’acqua del mare – e più ancora la stessa operazione di sezionare il mare, e di scegliere non una sezione di mare-tavola, bensì una sezione di mare-onda, potrebbe funzionare inoltre come una sorta di espediente per esorcizzare quel carattere ambivalente del mare di cui si parlava prima, un tentativo di razionalizzarlo, renderlo più prossimo all’umano, toccabile. È possibile infatti toccare il mare? Sì e no, giacché, nel momento in cui allunghi il palmo della mano per lambire quella superficie che i tuoi occhi avrebbero preventivato di accarezzare, l’acqua già non è più la stessa, come ci insegna circa venticinque secoli fa Eraclito, pur adoperando piuttosto l’esempio del fiume. Qui l’onda è solidificata, precisamente collocata in un solo tratto del tempo e dello spazio, pur conservando un segno di potenzialità transeunte.
L’operazione della Bonardi assurge così a qualcosa di non troppo distante da quelli che sono stati – e sono – i tentativi di rendere visibile, disponibile, comprensibile il divino attraverso l’icona. L’arte assume così ancora una volta, come da secoli a questa parte, la sua funzione di punto medio, di terreno di incontro tra il dicibile e l’indicibile, di costante fallimento nella misura in cui essa mira ad una traduzione immediata del secondo – ché tradurre è sempre tradire! -, ma di sollievo nella misura in cui l’umano si accontenta di un veicolo non troppo eccedente la potenza delle sue facoltà che pure contenga in sé la traccia di un ulteriore.