Piero Deggiovanni

Prof. di Estetica dei new media presso Accademia di Belle arti di Bologna


“Le opere video di Patrizia Bonardi, tra il 2006 e il 2013, possono essere lette come capitoli di un’unica trattazione simbolica sulla relazione tra l’essenza femminile e quella maschile, o meglio, tra gli archetipi che riconducono al mondo femminile e i prodotti nefasti della tecnologia – impero tradizionalmente ascritto alla sfera maschile.  In questo, oltre a illustrare metaforicamente la necessità della crescita culturale e di una consapevolezza femminile (Giddiness; Not Reponsible), la riflessione rievoca il legame tra gli elementi naturali e la donna sul piano archetipico: l’ambiente selvaggio e l’acqua, nei suoi stadi naturali e fisiologici, collegati a fasi esistenziali ed esperienziali (Uterine Lives; Lasting; Getting Involved; Hands in Black Water; All Is Water; The Immobility of Tree; Water’s Expectation;). In questi video Bonardi illustra momenti fondamentali dell’essere biologico e culturale femminile: l’iniziazione al sesso e alla società, la gestazione e il rito di passaggio della prole all’età adulta. In polemica con una società maschile e tecnologica, evidenzia la contraddizione tra il contatto femminile con le forze naturali e un territorio ormai “educato” dall’agricoltura; l’incuria del territorio e il suo riappropriarsi dello spazio; l’inquinamento industriale; la violenza sulle donne, ma anche dei media (Not Only Off) che distolgono da un necessario raccoglimento al fine di non vagare come ciechi in spazi anonimi totalmente scollegati da se stessi (Moving Inside). Forme di violenza verso la natura e le donne in una società che non si cura di altro che del profitto, rapinando e stuprando indifferentemente natura ed esseri umani, in una società controllata e anonima come anonimi sono i poteri della razionalità capitalista a cui l’artista oppone una potenza che è ormai soltanto dello spirito esprimibile nel privato (Family Dance). “

Patrizia Bonardi

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Contributi critici

Nila Shabnam Bonetti per P.Bonardi La paura dei barbari 2017


Ieri sera ho visto Fratelli di Crozza, show televisivo che dubito non conosciate. Patita delle parodie politiche? Tutt'altro. Mi disinteresso alla politica, figuriamoci alla relativa satira. Uno degli sketch ironizzava sul bisogno dei cittadini di armarsi per far fronte all'invasione di profughi che invadono la nostra terra e violano la tranquillità della nostra sfera domestica per svaligiare le nostre abitazioni. Poi l'attore mostrava come gli ultimi dati statistici rilevassero un netto calo della criminalità, proprio in questo periodo, in cui l'immagrazione ha raggiunto tetti altissimi. L'opinione pubblica è influenzata dai media, dalle strategie che un mucchio di persone, controllate a loro volta da un altro mucchio di persone, comandano di far credere, facendo il buono e il cattivo tempo. Ed è anche comprensibile che, per chi non è incline all'approfondimento delle informazioni, il clima si faccia nervoso, attribuendo a poche schegge impazzite quella che è l'intenzione di molti. Specialmente in una società come la nostra, che l'antropologo Francesco Remotti definirebbe dall'identità rigida, poco incline al cambiamento. La rivendicazione del Sé ci pone in contrasto con l'altro creando confini difficili da valicare, proprio perché ci auto definiamo aggrappandoci erroneamente a forme etniche, politiche e religiose che non dicono ciò che siamo realmente: esseri umani, forti e fragili, accomunati da sentimenti e desideri universali. Siamo scappati e scappiamo tutti dalla miseria, sogniamo una vita migliore, alla ricerca della felicità nostra e dei nostri figli. E Remotti, nelle sue ricerche su diversi popoli indigeni, mostra come in società animiste e paritarie, in cui la definizione dell'identità non si sia mai posta come un bisogno, l'incontro con il diverso (in questo caso l'uomo bianco intento a studiarli) sia basato su un sincero e incuriosito scambio, rivolto all'acquisizione e all'appropriazione del nuovo. Viene da pensare che la "verginità" verso l'altro da sé porti a un approccio libero dalla paura. La nostra memoria, parlo del popolo italiano, tra l'altro di recente formazione come identità nazionale, è costellata da informazioni dolorose, tra dominatori e invasori stranieri. Quello che Todorov, ne La paura dei barbari, definisce come sentimento della paura appartiene a popoli come il nostro che, con difficoltà, si è emancipato e arricchito ed ora teme di perdere tutto a causa delle masse impoverite provenienti da paesi più o meno limitrofi. Lo stesso autore ci mette in guardia da questo sentimento che, in casi storici ben conosciuti, ha portato a forme di difesa rivelatesi distruttive per entrambe le realtà coinvolte in questa dinamica. Potremmo scegliere strategie pulite (e uso questo termine, pulite, proprio per non cadere nelle solite dinamiche di sfruttamento a danno dei migranti) per tramutare in un punto di forza quella che ora ci appare come un'ingestibile debolezza. Ma, seppur ci si vanti di fare parte dell'evoluto Occidente, le Memorie storiche, in una società che corre all'impazzata verso non si sa bene cosa, sono qualcosa che non riesce a tenere il passo, semplicemente perché non lo vogliamo. Commemoriamo le Memorie curandocene formalmente, istituiamo giornate dedicate, le studiamo a scuola (quando va bene), ma le nostre scelte quotidiane sembrano fratturate da quel "pacchetto" che resta chiuso in un cassetto.


Patrizia Bonardi si interessa a queste tematiche da dieci anni, declinando queste riflessioni nella sua ricerca artistica. Incamera e rielabora da tempo informazioni che restano oscure ai più, prima fra tutte la tragedia delle morti nel Mediterraneo che in questi ultimi anni ci porta a identificare in numeri la morte di innocenti. La mostra che ha deciso di inaugurare, in corrispondenza con l'apertura del suo studio-spazio espositivo artists.sociologists, è un evento dedicato alla Memoria delle vittime, alla condivisione di questo dolore, che ha aperto in lei una cicatrice insanabile, e alla sensibilizzazione su un tema di interesse collettivo, strumentalizzato senza riserve dalle politiche dominanti di tutti i paesi del mondo, dall'Oriente all'Occidente. Pochi pezzi, di grande potenza, portano il visitatore ad immergersi e mettere in discussione se stesso e le proprie prospettive.

Colonne d'acqua (Water Colunms + Breaking pain geometry) è un'installazione monumentale che lei stessa definisce come la rielaborazione di un trauma, il tentativo di razionalizzare pensieri ed emozioni, fino a rendere l'oggetto come una testimonianza dell'incapacità di tutti noi, cittadini europei, di evitare una tragedia. Giocata sulla ricerca di geometrie e la distruzione delle medesime, si presenta in grandi parallelepipedi di legno, cera d'api e pigmenti colorati, accostati a un cubo di legno e a delle garze mediche pendenti, anch'esse intrise nella cera. L'intera opera definisce un percorso narrativo molto chiaro. I parallelepipedi come elemento che sovrastano e intimoriscono, l'acqua, la cui natura da sempre è controllata dall'uomo, diventa minacciosa. Il cubo, tentativo di dare una geometria al dolore, si presentava in precedenza rivestito dalle bende e dalla cera, ma ha subito un recente (e inaspettato) sviluppo. L'artista ha deciso di spogliarlo della parte superficiale, con un'azione che la Bonardi definisce come un brutale scuoiamento. Un atto intimo e performativo che ha ulteriormente caricato l'installazione di forza. Ora il quadrato si presenta spoglio e graffiato, come il desiderio di riscatto da un dolore che non può trovare soddisfazione. Ad aggiungere pathos all'opera le garze accostate, che pendono dal muro, corpi senza vita, abbandonati come i cadaveri sulle spiagge. Per quanto possiamo raccontarcela, non si può tornare indietro.

Mentre le Colonne d'acqua parlano di una realtà tangibile e fisicamente vicina, avvenuta in Italia, sotto i nostri occhi, le altre opere in mostra, strettamente collegate tra loro, gettano lo sguardo sul luogo di provenienza dei migranti, su una società sfruttata e distrutta,  resa in macerie. Si tratta di luoghi lontani, che teniamo lontano per paura. Seppur terribili, l'artista riesce a raccontare episodi di guerra attraverso l'uso poetico dei medium prescelti, come per gli acquarelli, in cui la delicatezza della tecnica rappresentativa si contrappone alla durezza del significato.

L'opera Liquid collapse,  in cera d'api, materiale caldo e confortevole, si confronta con una razionalizzazione geometrica scarna che riproduce celle abitative distrutte dalla guerra. Riprendendo lo stesso concept, Open to meet, si presenta in scala diversa e più sintetica. In precedenza l'opera era accompagnata da frasi a muro che indicavano le identità negate, strappate alla vita dalla guerra. L'artista, in questa occasione, riadatta l'installazione al tema della mostra, le identità negate ora sono quelle dei tanti migranti senza nome che popolano il nostro paese e di cui rifiutiamo l'esistenza.


Ci sentiamo sicuri nelle nostre case, emancipati dalla guerra, concetto che vogliamo rimuovere come un trauma antico, ma la velocità con cui gli eventi socio-politici si accavallano dovrebbe ricordarci come il mondo sia un ecosistema piccolo e chiuso che ci costringe al confronto con le nostre paure. Paure da combattere, cambiando seriamento orientamento.

Arteamcup 2015

Giurati Anna Lisa Ghilardi / Matteo Galbiati / Antonio D’amico/ Livia Savorelli / Luca Bochicchio


La ricerca artistica di Patrizia Bonardi, in un dialogo attivo tra arte e sociologia, è generata da un ambito intimo per aprirsi ad un contesto collettivo. L’ambientalismo e altre molteplici emergenze sociali sono infatti le tematiche che danno origine alla sua opera. Nei suoi linguaggi espressivi si rivela una costante attenzione all’uso del materiale e una forte relazione con l’ambiente naturale. La cera d’api, materiale ricorrente, esprime la fragilità, l’instabilità e l’indeterminatezza della società odierna, ma anche la cura degli oggetti che avvolge, il calore e la precarietà delle barriere: le arnie sono inoltre metafora delle relazioni umane. L’installazione in mostra Fiori migranti è una piccola zattera coperta da minuti fiori fatti di bende intinte nella cera, stretti gli uni agli altri, a cui sono appoggiate lunarie riflettenti il chiarore della luna, della speranza. La zattera, come documenta il video dell’Artista, è stata iniziata al rito dell’accoglienza sulle acque del lago Calamone. A riva è stata accolta e ri-accolta da mani, in atto di cura per ogni fiore-migrante.

Kevin McManus per P.Bonardi Vite che non possiamo permetterci 2017


Umanità

Ci sono mostre che seducono come un bel libro; magari di difficile lettura, ma capace di lasciare qualcosa, alla fine di ciascuna pagina, che inviti a leggere la pagina successiva, e così fino alla fine. E ci sono mostre che invece seducono come un panorama di montagna, o come una marina immersa nel sole, o ancora come il fuoco che arde in un camino in autunno. Vite che non possiamo permetterci, senza presunzione, vuole percorrere entrambe le strade, magari in tempi diversi, sicuramente lasciando al fruitore la scelta (la seduzione, almeno in arte, implica il desiderio di lasciarsi sedurre). Ma non intendo anticipare le conclusioni: la seduzione del secondo tipo descritto è evidente fin dall’ingresso nello spazio BACS a Leffe, che ci immerge immediatamente, ci abbraccia in una grande installazione composta dai singoli lavori, ma che ciononostante si presenta come un “tutto” avvolgente. Non si tratta però di una fusione, o di un sacrificio della singola opera a favore dell’insieme, ma piuttosto di una polifonia in cui tutte le singole voci, ciascuna con un proprio tempo e una propria storia, conservano una sostanziale e irrinunciabile autonomia. L’esito di questo armonico mescolarsi di suggestioni singole è innanzitutto estetico; chi conosce il lavoro di Patrizia Bonardi sa bene (ne parleremo tra poco) come esso sia radicato in una riflessione profonda su temi extra-artistici. Ben lontana, tuttavia, dall’affidarsi a quell’«estetica del supplemento», per citare Seth Siegelaub, che in molta arte degli ultimi decenni costringe lo spettatore a un sempre più complesso, disarticolato processo di lettura di testi d’accompagnamento, di elementi istallativi “paralleli” che forniscono le informazioni indispensabili alla comprensione dell’opera, la nostra artista punta ancora sulla densità e concentrazione dell’opera d’arte forte, fatta in primis di sensorialità; sulla solleticazione, insomma, del gusto di chi guarda, che è ottico, certamente, ma anche “aptico”, tattile. Non c’è mai quel distacco visuale dato dal consueto rapporto con la cornice (un fuori che osserva un dentro); c’è sempre una co-presenza spaziale, un desiderio di toccare e, in alcuni casi, di entrare all’interno dei lavori.

L’impressione, insomma, è quella di una forte umanità; intesa non tanto nell’accezione più scontata di sensibilità e apertura verso l’altro (elemento che c’è eccome, ma che non costituirebbe di per sé una prerogativa), quanto in quella più complessa di una relazione orizzontale, contestuale tra opera e fruitore. È l’arte, insomma, a venire incontro all’uomo e al suo mondo, talvolta esplicitamente e tematicamente, come in When I read to you, talvolta più visceralmente, attraverso la scelta dei materiali: la benda, materiale fatto per un contatto assoluto e solidale con la pelle, emblema di protezione e cura ma anche e innanzitutto, come dicevo, superficie che invita il tatto a superare la barriera elitaria della fruizione visiva; la cera, materiale malleabile che non si limita a subire l’azione delle mani ma, come un fiore che attira le api con i suoi petali, la suggerisce, la incita, chiamando a sé il tocco dell’uomo-artefice. E non si tratta solamente di suggerire il gesto dell’osservatore, ma anche di portare la traccia del gesto originario dell’artista, di rievocare il tempo fisico, corporeo dell’esecuzione dell’opera, come in Marea nera, dove l’inserimento della lamina metallica in un solco continuo inciso lungo la superficie sembra ripercorrere la gestualità frenetica, quasi violenta che ha generato l’opera. O nella stessa When I read to you, che invece sembra testimoniare la pazienza del lavoro manuale e rituale del cucire, del costruire un rifugio. O ancora in Countercurrent, il cui “montaggio” finale mostra allo schermo dell’immaginazione il delicato tocco della mano che appoggia ogni singolo pezzo alla parete, dandogli simbolicamente vita.

Opere individuali, ciascuna impregnata di una propria storia e di proprie ragioni poetiche, realizzate in momenti diversi e alla luce di pensieri e sentimenti diversi; e che tuttavia vanno a costituire un “tutto” relazionale, dove la relazione stabilita avviene tra artista e osservatore, attraverso il lavoro.


Significato e senso

Lo spettatore romantico e impulsivo può anche fermarsi qui. L’arte di Patrizia Bonardi offre di per sé, anche a una fruizione ingenua, abbastanza da portarsi a casa. Ma c’è dell’altro. Esplicitamente, questa polifonia di opere costituisce un omaggio a una delle figure chiave della sociologia contemporanea, Zygmunt Bauman. E tutto il lavoro di Patrizia Bonardi è fatto di un tendere verso una dimensione diversa da quella confinabile entro il discorso specifico dell’arte; un’attività che fin dalla fondazione di BACS punta a costruire un ponte tra arte e sociologia, ovvero tra quelle che sono forse le più umane di tutte le “scienze umane”. Tutta la vera arte è, in fin dei conti, sociale in senso lato, dal momento che mette in crisi (o perlomeno dovrebbe) la sicurezza dello status quo, suscitando riflessioni diverse da quelle legate all’utilitarismo delle cose di tutti i giorni, creando un orizzonte di pensiero estetico inizialmente superfluo, ma che poi si configura come essenziale alla costituzione di un modo umano di vedere il mondo («poeticamente abita l’uomo su questa terra» diceva lo pseudo-Hölderlin). L’arte della Bonardi, tuttavia, ambisce ad essere anche sociologica, introducendo quindi il riferimento a un ambito disciplinare ben preciso. Come ci riesca – e come ci riescano nello specifico le opere in mostra – lo potrà spiegare meglio la sociologa Manola Del Greco nel suo testo in questo catalogo; limitiamoci qui a un paio di suggerimenti.

Il primo riguarda una sorta di metodologia dell’osservatore, e può essere utile anche al di fuori dei confini della mostra. Come cogliere la forza di questi lavori, come identificare il legame suggestivo che li lega alla riflessione sociologica e, sottilmente, al testo di Bauman da cui prende il titolo l’evento (legame multiforme e instabile, dal momento che molte opere prescindono dalla lettura del testo o addirittura la precedono)? Come individuare questo ponte tra un lavoro pienamente e intensamente artistico come quello di Patrizia Bonardi e un discorso specifico come quello della sociologia? È necessario prima di tutto fare uno sforzo e abbandonare l’ossessione per il significato, a favore di una ricerca del senso; queste due parole, infatti, sono usate ampiamente come sinonimi nel linguaggio quotidiano, ma nel discorso dell’arte sono estremamente distanti. Il significato è ciò che “sta dietro” l’opera, presa quindi come significante; è quel referente assente di cui l’opera si fa segno presente (significatum). Cercare il significato vuol dire insomma chiedersi «che cosa vuol dire?». Più di cinquant’anni fa Susan Sontag, in Against Interpretation, suggeriva un nuovo atteggiamento per il fruitore dell’opera d’arte, che consisterebbe nel chiedersi «Che cos’è?», anziché «Cosa significa?»; e concludeva il saggio auspicando, al posto di un’«ermeneutica dell’arte», una più pertinente «erotica dell’arte». Sentire l’arte non per il presunto – e spesso inesistente – messaggio in codice che ci dovrebbe proporre, ma per la sua natura di oggetto di conoscenza sensibile. Il suggerimento della Sontag spinge verso una fruizione fisica e formale (non necessariamente formalista) dell’opera, che non comporti l’esigenza di capirla, e quindi di dominarla, ma piuttosto quella di mettersi in ascolto di essa, di far risuonare in qualche modo gli stimoli sensoriali da essa attivati.

Il senso è tutt’altro. È la direzione in cui il contatto con l’opera mi pone, è il luogo verso cui mi spinge a guardare, la strada in cui mi colloca: una strada ampia di cui il singolo soggetto fruitore può decidere di esplorare punti diversi, e di cui lo sguardo individuale può illuminare zone diverse. Ma nondimeno una strada con dei limiti laterali. Un’apertura vasta ma non totale ed aleatoria. L’opera cioè non nasconde nulla, non parla nessun linguaggio in codice, ma ha la capacità di modificare il mio tragitto, di portarmi a volgere lo sguardo in una direzione suggerita. Ecco, optando per il senso, a mio avviso, si può cogliere la portata ulteriore dei lavori di Patrizia Bonardi, la loro dimensione al di là dell’impatto visivo: non cercando quindi, corrispondenze segrete tra la tale opera e un certo passo di Bauman, e nemmeno un concetto baumaniano specifico (ma qui rimando, di nuovo, al testo di Manola Del Greco, nonché all’intervista all’artista di Ilaria Bonacina), ma piuttosto lasciandosi direzionare in un senso, che può essere lo stesso in cui ci direzionerebbe, con strategie discorsive diverse, la lettura del libro di Bauman.


Vite che non possiamo…

Ecco allora che When I read to you ci direziona verso un’idea di precarietà e al tempo stesso di protezione, di custodia del senso prodotto emblematicamente dal libro; ecco che Countercurrent ci parla di un moto irrituale e ostinato, di orientamento indecifrabile. Run to the Past ci comunica con estrema economia di mezzi un’idea di chiusura e al tempo stesso di ritualità liberatoria, di ritorno del tempo si sé stesso. Liquid collapses ci rimanda alle immagini di abitazioni devastate dalla guerra, scorticate e private della facciata, elemento di identificazione (come il volto di una persona) ma anche confine tra pubblico e privato. Honey Moon ci mette davanti, in modo tattile e, verrebbe da dire “ecologico”, alla superficie lunare amata da poeti e artisti, in un andirivieni di gusto per la superficie e suggestioni di profondità. La Marea nera, di cui sopra, nata sulla scorta di riflessioni sull’inquinamento dei mari, non ci propone un messaggio univoco, ma ci pone davanti alla sensazione fisica di angoscia e soffocamento, di invasione dello spazio naturale, attraverso il gioco dei suoi materiali. Il Quasar, immagine astronautica ma anche memoria dell’effetto-risucchio dei vecchi televisori a tubo catodico al momento dello spegnimento, non ci illustra pedissequamente le sue fonti di ispirazione, ma ne condivide l’idea di chiusura catastrofica, vorticosa e traumatica, e al tempo stesso di abbaglio e accecamento. Breaking Geometry, un cubo distrutto di cui restano le facce separate e ammucchiate, ci mette davanti al trionfo del naturale sull’artificiale, del fisico sul mentale, del concreto sull’astratto, della presenza sull’assenza, con i resti di una forma puramente teorica, immateriale visti nella loro esistenza gravitazionale. Le Colonne d’acqua ci direzionano verso l’esperienza sublime e drammatica dell’immersione, che vuol dire annegamento oppure salita verso la luce, verso la salvezza.

I lavori realizzati appositamente per la mostra riprendono una riflessione compiuta dall’artista sul tema e sul formato della nassa. In entrambi i casi, l’immagine di intrappolamento che questo particolare oggetto comunica fin dalla sua forma (caso clamoroso di un funzionalismo intuitivo, artigianale) è messa al centro dell’opera, associata però con il suo contrario. In Nassa / Pot break to free la sensazione di apertura, di via di scampo in qualche modo conquistabile, e d’altra parte la spinta verso l’alto data dalla verticalità della struttura, trasformano la trappola in una via d’uscita privilegiata; nell’orizzonte illogico e poetico dell’opera d’arte, l’oggetto trascende la propria forma e, in qualche modo, si eleva in una redenzione simbolica.  Nasse / Pots past traps , invece, compie un diverso tipo di trasfigurazione della trappola: quest’ultima, allentata e stilizzata, scala sull’asse linguistico e diventa piuttosto una cornice, la marcatura di un punto d’osservazione privilegiato che apre il nostro sguardo sul mondo (e, in questo caso, sul resto della mostra).

Una seconda, e ultima, breve riflessione riguarda il testo di Bauman a cui la mostra fa riferimento. Il titolo inglese, Living On Borrowed Time, significa letteralmente «Vivere in un tempo preso in prestito». La suggestione è data da una lettura puramente letterale, ed è sicuramente involontaria. Ma ancora una volta, guardando al senso presente più che al significato nascosto, possiamo entrare meglio nell’anima di questo lavoro artistico: le opere di Patrizia Bonardi, con la loro presenza forte e al tempo stesso discreta, con il loro indicare senza affermare asseverativamente, con il loro rispetto per l’osservatore, al quale chiedono una fruizione attiva e creativa, piuttosto che una spettatorialità passiva, rendono perfettamente giustizia all’idea – molto attuale – di vivere in un presente di cui nessuno di noi è padrone; in un tempo che, come uomini, prendiamo in prestito gli uni dagli altri, e che pertanto richiede una costante assunzione di responsabilità, e la passione della cura.

Katiuscia Pompili per P.Bonardi La nostra casa è in fiamme 2019

La nostra casa è in fiamme personale di Patrizia Bonardi prende le mosse dall'ideale di stampo ecologista che l'artista ha rispetto al benessere della Terra e  dai movimenti transnazionali capitanati dalla giovane Greta Thunberg. 

“Il Bene ha una naturale forza di espansione, erompe senza tregua verso l'espressione, vuole comunicarsi ad ogni costo, farsi condividere”così R. Barthes scrive nel suo ultimo intervento milanese su Stendhal, poco prima dell'incidente che lo porterà alla morte.

Secondo il semiologo francese “non si riesce mai  a parlare di ciò che si ama” perché “ogni sensazione se se ne voglia rispettare la vivacità e l'acutezza, induce all'afasia” e così dato che paradossalmente si finisce a parlare sempre di ciò che si ama per riuscire a trasmettere linguisticamente, formalmente, tale amore bisogna utilizzare l'immaginazione, ci vuole il racconto dell'amore.


Quello di Patrizia Bonardi è un tentativo di narrazione di un'esperienza – quella dei fridays for future – che la vede come attivista ma che coinvolgendola in prima persona in modo passionale, e quindi amoroso, deve riuscire a sintetizzare attraverso il linguaggio proprio dell'arte.

E' difficile descrivere le emozioni perché il rischio è l'appiattimento, per farlo occorre quindi un processo di costruzione narrativa, forse un allontanamento dall'io percettivo rispetto all'io narrante. L'artista a questo scopo presenta una serie di opere di grandi dimensioni realizzate con materiali organici come la cera d'api caratterizzate da un ritmo ascensionale che costruiscono, allontanandosi dalla figurazione, un mondo introspettivo in cui l'attualità dei fatti politici rimodula i suoi contorni.

Il dialogo tra arte e scienze sociali all'artista tanto caro, prende così forma in strutture che crescono nel suo immaginario quasi fossero piante spontanee cresciute a dispetto dell'incuria dell'uomo, anzi forse proprio grazie alla sua assenza.


Il movimento che oggi porta in piazza i giovanissimi di tutto il mondo pone l'accento sulle problematiche  relative all'emissione di Co2 e al drastico cambiamento climatico che queste comportano. E' una sorta di ondata passionale che ha il merito di non porsi confini nazionali ma che anzi manifesta  un'urgenza inclusiva di tutti i popoli. Il limite è che essendo così giovane e quasi istintivo non riflette sulle radici economiche capitaliste che sono alla base della tragedia ambientale e umana, legata allo sfruttamento a scopo monetario non solo del territorio ma anche degli uomini.

Questa riflessione sarà l'ulteriore passo che il movimento dovrà compiere in vista di un vero e proprio ripensamento dei sistemi di produzione, sarà probabilmente il nodo da sciogliere sul futuro delle nuove generazioni.


Patrizia Bonardi crede che l'arte non possa distaccarsi dalle istanze che il mondo che ci circonda ci pone davanti, crede che i giovani invertiranno la rotta, che un futuro per la Terra sia ancora possibile prendendosene cura, avendo a cuore le sue sorti.

La sua è una storia di affetti, le sue opere fragili e materiche, soggette alle modifiche del tempo sono una metafora della natura o forse proprio un diretto frammento di essa, c'è quasi una visione panteistica in tutta la costruzione della mostra personale che porta nel tempio dell'arte, sul suo bianco altare, la Natura stessa.

Stefano Taccone per Mare bandiera di P.Bonardi 2020


Il mare: cimentarsi nel parlare del mare per uno scrivente può produrre il medesimo effetto di colui che si pone davanti ad esso per contemplarlo. Un senso di sublime kantiano, in quanto terrore per l’impossibilità da parte dell’uomo di relazionarsi adeguatamente alla sua infinita grandezza e coscienza di comprendere comunque questo enorme dislivello. Dall’Odissea omerica a Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway, dalla storia – biblica e non solo - del Diluvio a Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne – solo per citare casi stranoti – il mio dubbio è che l’area che ricoprirebbero tutte le pagine relative alla letteratura del mare sarebbe maggiore di quella del mare stesso, che – si badi – occupa circa due terzi della superficie terrestre.

Sul filo dell’ambivalenza del sentimento potremmo continuare a lungo. Il mare è infatti fin da tempi antichissimi una benedizione per la vita umana: il mare offre sostentamento attraverso la pesca; chi vive vicino al mare respira iodio e ne trae grande vantaggio per la salute; chi ha uno sbocco sul mare sviluppa l’attitudine al viaggio, quindi alla curiosità, all’apertura verso le culture altre, e ciò ci permette di risalire almeno ai fenici ed ai greci antichi. Tuttavia il mare è anche una grande minaccia, perché l’uomo resta un animale di terra – benché tutti gli esseri attualmente viventi, pare, discendano da esseri un tempo acquatici –, o al massimo di acqua dolce, e dunque abbandonare la terra ferma per un tempo troppo lungo lo espone a tutti gli enormi pericoli che il suo “nemico-amico” tipicamente gli procura. Il mito delle Colonne d'Ercole che ancora appena mezzo millennio fa mantiene tutto il suo portato di tabù come ha ben occasione di sperimentare un Cristoforo Colombo – e non a torto, visto che il capitano genovese sbaglia clamorosamente i calcoli e, con tutto il suo equipaggio, viene salvato soltanto dall’imponderabile presenza della pseudo-India americana – è forse quanto di più emblematico circa questo versante sinistro del mare – e non a caso Dante le sceglie come umiliazione, annichilimento della curiosità più spinta che sconfina nell’autodistruzione, cambiando il finale al racconto omerico di Ulisse.

Negli ultimi tempi probabilmente sono però due in particolare gli eventi disastrosi che il mare è in grado di evocare. Uno è legato al surriscaldamento globale, con annesso, minacciosissimo, scioglimento dei giacchiai e innalzamento delle maree – scenario peraltro non alieno da una morale che ricorda all’uomo il prezzo dell’infrazione di certi limiti, come per l’Ulisse dantesco. Esso è ampiamente aleggiante nella mostra collettiva La società del rischio, apertasi nell’autunno dello scorso anno sempre al BACS di Leffe, di cui Patrizia Bonardi è curatrice, prima ancora che una degli artisti in mostra; ed in questa ultima veste, con un’opera come Onde anomale (2019), non si lascia sfuggire l’occasione di affrontare tale eufemisticamente scottante questione a partire proprio da una scultura-mare. L’altro, forse ancor più direttamente connesso, almeno sul piano dell’immaginario, al mare, è il dramma dell’immigrazione nel Mediterraneo: donne e uomini – bambine e bambini! – esasperatamente in fuga da territori invivibili che spesso e volentieri trovano un muro di disumanità. E qualche volta anche muri letterali: si veda quello che proprio in queste ore sta costruendo la Spagna con il suo tanto decantato governo non solo genericamente di sinistra – PSOE –, ma con una forte componente di “sinistra radicale” – Podemos.

A questa seconda tragedia assistiamo reiteratamente da una decina d’anni, peraltro, con picchi estivi e non senza che essa trovi una triste controparte nell’aumento dei sentimenti xenofobi nella popolazione italiana ed europea in generale. Ed è appunto da una decina d’anni a questa parte che Patrizia non cessa di allarmare su di essa, tramite sculture-mare - come quella della mostra dell’anno scorso - quali Blue Wound (2011) – anche se in quest’opera il riferimento all’attualità è un attimino più rarefatto -, Mare zattera (2012), Mare prigione (2015) o anche opere di altro genere, Fiori migranti (2015) ad esempio. A questa seconda tragedia ella sembra riferirsi nel momento in cui realizza i suoi ondeggianti plasticismi multicolori. La tecnica della cera ad encausto le permette di raggiungere risultati che nella loro forza evocativa suscitano anche numerosi enigmi ed inciampi noetico-percettivi. Si tratta ad esempio di una scultura astratta o mimetica? Se ad un primo sguardo saremmo portati ad optare per la prima ipotesi, aiutati anche dai colori franti o – in altri frangenti - dal monocromo bianco, un titolo come Mare bandiera ci suggerisce se non qualcosa di opposto quanto meno qualcosa di diverso. Senz’altro insomma l’arricciarsi relativamente regolare del materiale richiama l’attorcigliarsi delle onde e – perché no? – anche i moti vari di una bandiera turbata dal vento, senonché il mimetismo si ferma appunto qui, non giungendo ad interessare i colori che a questo punto, in quanto pluralità di tinte richiama le bandiere dei vari popoli e nel contempo richiama le molteplici identità di chi solca il mare – e magari vi trova anche la morte. La policromia diviene insomma metafora di un mare come zona franca, come cerniera tra le terre che è di tutti – e non di nessuno.

Il rapprendersi di un materiale primariamente liquido – come liquida è l’acqua del mare – e più ancora la stessa operazione di sezionare il mare, e di scegliere non una sezione di mare-tavola, bensì una sezione di mare-onda, potrebbe funzionare inoltre come una sorta di espediente per esorcizzare quel carattere ambivalente del mare di cui si parlava prima, un tentativo di razionalizzarlo, renderlo più prossimo all’umano, toccabile. È possibile infatti toccare il mare? Sì e no, giacché, nel momento in cui allunghi il palmo della mano per lambire quella superficie che i tuoi occhi avrebbero preventivato di accarezzare, l’acqua già non è più la stessa, come ci insegna circa venticinque secoli fa Eraclito, pur adoperando piuttosto l’esempio del fiume. Qui l’onda è solidificata, precisamente collocata in un solo tratto del tempo e dello spazio, pur conservando un segno di potenzialità transeunte.

L’operazione della Bonardi assurge così a qualcosa di non troppo distante da quelli che sono stati – e sono – i tentativi di rendere visibile, disponibile, comprensibile il divino attraverso l’icona. L’arte assume così ancora una volta, come da secoli a questa parte, la sua funzione di punto medio, di terreno di incontro tra il dicibile e l’indicibile, di costante fallimento nella misura in cui essa mira ad una traduzione immediata del secondo – ché tradurre è sempre tradire! -, ma di sollievo nella misura in cui l’umano si accontenta di un veicolo non troppo eccedente la potenza delle sue facoltà che pure contenga in sé la traccia di un ulteriore.


 

Stefano Taccone scrive del video “italian factory”:


Patrizia Bonardi esplora, con un piglio quasi da videoreporter, uno dei luoghi simbolo della grave crisi del capitalismo italiano, la grande fabbrica fordista, ed in particolare la Fiat, vero e proprio marchio-emblema del boom economico dei primi decenni del dopoguerra - «ciò che va bene alla Fiat va bene all'Italia», soleva dire l’avvocato Agnelli -, ma anche vero e proprio marchio-bersaglio delle lotte dei lavoratori di allora, ed il suo storico stabilimento di Mirafiori, raccogliendo i colori, anche vivaci, ed i suoni, anche aggressivi, di un popolo in grave agonia, spossato e sfiduciato dalla lenta ma irreversibile erosione dei diritti – e della dignità – che hanno prodotto i “trent’anni ingloriosi”, aperti il 14 ottobre 1980 dalla Marcia dei quarantamila, con la quale si concluse un’altra vertenza che pure aveva in Mirafiori l’epicentro.

irafiori 1980-Mirafiori 2011: la crisi della centralità della grande fabbrica fordista dal suo incipit al suo compimento. Ai lavoratori non resta neanche più la guerra di trincea, la difesa spasmodica dell’esistente, bensì, ahimé, il baratto tra la l’orgoglio e la sopravvivenza, rappresentato da quella autentica pistola alla tempia che è il referendum che si accingono a votare. Le bandiere, gli striscioni, i cartelli, i comizi sono divengono feticci per esorcizzare la gelida minaccia che aleggia nell’aria, simboleggiata dall’intermittenza di quel segnale di rosso per i pedoni o dello stesso logo metallico della Fiat che vibra sinistramente.


Nearly with the style of a videoreporter, Patrizia Bonardi is exploring one of places being the symbol of the severe crisis of Italian capitalism, the big fordist plant, namely Fiat and its historic Mirafiori plant, which was a true emblem of the economic boom of the postwar first decades  – «what is good for FIAT is also good for Italy», this is what Dr.Agnelli used to say – but which was also a true target of the workers’ struggle of that time.

The artist gathers colours, even bright ones, and sounds, even aggressive ones, of people in harsh agony, exhausted and discouraged due to the slow but irreversible erosion of rights – and dignity as well – which generated the “inglorious thirty years”,  opened on 14th October 1980 by the March of Forty Thousand Workers,  when another industrial dispute ended, whose epicenter was still in Mirafiori.

Mirafiori 1980-Mirafiori 2011: a crisis in the major role of Fordism from its very beginning to its end.

Workers cannot even make a trench war, in order to spasmodically defend the existing conditions; alas, the most they can do is counterbalancing pride and survival, with a revolver aimed at their head, like the referendum they are going to vote for.

Flags, banners, placards and meetings are nothing but fetishes helping to exorcize the freezing threat stirring the air, symbolized both by the intermittency of the flashing beacon or by the ominously fluttering Fiat metallic logo. (Translation Ivana Rossi)


Fatma Ali dal Cairo:


Alla fine dell’anno scorso, ad un convegno d’arte in Europa nella città di Essen in Germania, ho visto un’opera dell’artista italiana Patrizia Bonardi. In essa l’immaginazione dell’artista ha rappresentato uno dei corpi celesti più oscuri e lontani delle profondità dell’universo: il quasar. Si tratta di un’opera complessa, che trae ispirazione dalla misteriosità di questo corpo, che assomiglia ad una stella molto brillante. L’artista lo rappresenta con una forma circolare. L’intero disco è occupato da pezzi di bende immersi nella cera d’api. Intorno al disco vi sono parti separate che si trovano ad un livello diverso, ma che sono legate all’orbita del disco: tutto ciò ne suggerisce un movimento senza fine, talmente impetuoso che i suoi margini ne vengono corrosi, nonostante il ripiegamento su se stesso del disco. L’artista indirizza la nostra attenzione al centro della forma evocata, un turbine violento che inghiotte i lembi di stoffa, come fosse un vortice d’acqua che rappresenta o evoca l’energia di una forza di risucchio infinita. Gli studiosi hanno analizzato i quasar attraverso i radar: essi sono lontanissimi nelle profondità dell’universo presente. Gli studiosi sono rimasti sconcertati dall’intensità del loro brillio e dall’enorme energia che sprigionano. Grazie ai loro calcoli hanno scoperto che la luce di un qualsiasi quasar supera da dieci a mille volte la luce di una qualsiasi galassia. Il quasar emette una quantità immensa di energia:uno studio astronomico che ha copiiuto le sue osservazioni attraverso i radar afferma che quando guardiamo un quasar guardiamo indientro nel tempo di circa ottomila milioni di anni.

Akhbar el yom 30 Dicembre 2009

(traduzione dall’arabo di Mara Rossi)

Manon Slome about “Lasting”

Manon Slome (PhD) is the Chief Curator of No Longer Empty. From 2002 to June 2008 she was the Chief Curator of the Chelsea Art Museum in New York.


“What appealed to me about your particular video was first of all this, ah, I didn’t know what I was seeing at first, but it was beautiful. This sense of being inside something that wasn’t quite safe, but outside was even less safe, ahm, and the plastic between, which was a very fragile membrane betweenintside and outside and that you were sewing it together. So it was this tremendous sense of fragility and yet beauty and, what was out there?”


Quello che mi ha attratto del tuo video, in particolare, è stato prima di tutto che non sapevo cosa stessi guardando inizialmente ed era bellissimo. Il senso di essere all'interno di qualcosa che non è per niente sicuro, ma sentire che fuori lo è anche meno. La plasticità fra i due spazi, una fragile membrana che separa dentro e fuori, spazi visibili contemporaneamente.  Un fortissimo senso di fragilità ma al contempo bellezza e una domanda, cosa c'e fuori?”